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Pietro Santucci da Manfredonia, una figura da riscoprire


Sepoltura di Pietro Santucci da Manfredonia - Eremo di Santo Spirito
Sepoltura di Pietro Santucci da Manfredonia - Eremo di Santo Spirito

L’Abbazia di Santo Spirito a Majella è da sempre legata alla figura di Pietro da Morrone, colui che nel 1294 diventerà Papa Celestino V. Fu lui a edificare la chiesa al suo arrivo, intorno al 1246, e a fondare, proprio in questo luogo, la confraternita dei monaci celestini. In pochi sanno però che la storia di Santo Spirito è legata anche ad un altro illustre personaggio, i cui resti sono ancora oggi conservati negli ambienti della sacrestia: si tratta di Pietro Santucci da Manfredonia. Diversi secoli dopo il soggiorno di Pietro da Morrone, precisamente nel 1586, quando ormai la chiesetta si ergeva, incastonata tra le rocce della Majella, decadente e occupata dai pastori, il giovane Santucci arrivò in quell’aspro luogo con l’intento di ridare splendore al monastero. 

UNA SCELTA DI SACRIFICIO E DEDIZIONE

Gli inizi non furono semplici. Iniziò allontanando i pastori dalla chiesetta; si nutriva di erbe e di acqua delle fonti; dormiva sulla nuda terra e passava la maggior parte del tempo pregando. Camminava molto, anche tra le nevi, predicando. La sua fama crebbe, ma la fatica cui imponeva la sua vita lo debilitò fin quasi ad ucciderlo. Solo grazie all’aiuto di un amico di Roccamorice riuscì a ritrovare le forze e portare a termine i progetti di riedificazione del Monastero. 

Il Santucci era alto, robusto e di bell’aspetto, nonché caritatevole, secondo la descrizione data dal Telera. Studiava le dottrine teologiche, era dedito al disegno e alla scultura: adornò la chiesa di Santo Spirito con statue di stucco fatte da lui; si dilettava nel suonare i cembali, gli organi e nel canto. Si appassionò all’architettura, grazie alla quale riuscì a rendere sicuro il monastero da piogge e nevi, creando per l’inverno dei raccoglitori d’acqua ad uso del cenobio.

Fornì Santo Spirito di tutte le cose necessarie. Collocò anche un crocifisso, a grandezza naturale, nella sua cella, quella che fu di S. Pietro Celestino. A questo punto mancava a suo avviso qualche reliquia di un Santo. L’11 aprile 1591 si recò nella chiesa di S. Stefano di Vallebona, nei pressi di Manoppello, abbandonata e senza tetto, dove si conservava il corpo di S. Stefano detto del Lupo, lì prelevò le reliquie del santo e di notte le portò al monastero della Maiella. Nel 1616 Pietro Santucci ricevette da Papa Paolo V il titolo di Abate, grazie ai meriti riconosciuti. Nell’anno 1617, mentre era a Chieti, al passaggio della Santissima Eucarestia, che un sacerdote conduceva per un infermo, il Santucci cadde a terra con immensa devozione, lasciandosi rapire dalla grazia di Dio, avvertendo dei mancamenti.

Da allora ogni volta che si trovava in presenza dell’Eucarestia, pativa svenimenti, rapimenti di cuore, estasi e quasi agonia, respirando affannosamente. Questi fatti divenuti pubblici, aumentarono la devozione del popolo nei suoi confronti. 

GLI ESORCISMI

Il Santucci deve la sua fama anche alla lotta contro il demonio. Nel 1593, il Giovedì Santo, il Padre effettuò un doppio esorcismo nella camera di S. Pietro Celestino. Una donna era posseduta da un demone di nome Maccone, il quale dopo il rito e dopo esser stato cacciato dal corpo della signora, entrò a possedere l’eremita, assistente dell’abate. Al momento della possessione, i capelli dell’uomo si drizzarono e i presenti fuggirono. Ma non Santucci che riuscì a liberare anche lui. Nel corso del tempo, altre persone furono liberate. Nel 1619, avvenne la liberazione della signora Speranza di Moiano, dopo circa 11 anni di possessione. 

Nel 1620, una donna di Atri, di nome Polisena, fu portata nel monastero e, mentre si avvicinavano al luogo sacro, una tempesta di pioggia e saette si abbatté sulla Maiella e sul cenobio. Il Santucci capì che era opera dei demoni. Prese la croce e iniziò una preghiera di liberazione, poiché aveva anche la virtù di cacciare i demoni dai luoghi. Nel frattempo giunsero le persone con la signora ossessa e dopo aver verificato il collegamento, l’abate si dedicò a esorcizzare la donna. Al termine del rito, anche la tempesta cessò. Tempo dopo, alla morte del marito, la donna si fece monaca. 

Il Santucci, essendo molto devoto di S. Maria Maddalena, nel 1624, edificò una cappella sopra la Chiesa di S. Spirito, dove fu liberato un uomo che, nell’agitazione, bestemmiò quella Santa chiamandola “publica meretrice”. Prima di essere cacciato, lo spirito sollevò il posseduto facendogli battere la testa contro il soffitto e lasciandolo cadere a terra. 

Nel 1630, due sorelle e un uomo, marito di una di esse, provenienti da Pianella, entrarono nella chiesa, ballarono e vociferarono. L’abate, accortosi del frastuono, gli andò incontro e li toccò liberandoli dagli spiriti, ma causando la fuoriuscita di due ossa dalla bocca dell’uomo. 

Queste sono solo alcune delle molte testimonianze di battaglie intercorse tra Pietro Santucci e il Maligno. Spesso l’Abate affermava che non sempre vi erano segni diabolici in coloro che chiedevano di essere liberati e che a volte le persone “si fingono tali per mal fine”.

Per i riti si avvaleva di una piccola croce in legno e una stola. Il Santissimo Sacramento, invece, veniva impiegato per liberare gli ossessi quando gli spiriti erano più resistenti. Spesso bastava portare i posseduti davanti all’immagine di Maria Vergine e al Santissimo Crocifisso per ottenerne la liberazione. 

i miracoli

Negli ultimi anni, a causa della sua infermità, non poteva più effettuare gli esorcismi (che venivano eseguiti dai suoi discepoli), ciò nonostante, la gente lo invocava sempre affinché ponesse la propria mano sulla loro testa per la benedizione. 

Avendo dimorato 55 anni nell’eremo della Maiella, fù da tutti chiamato Pietro della Maiella, e non Santucci o Pietro da Manfredonia. Il primo febbraio 1641 morì a Santo Spirito circondato dai suoi discepoli e confratelli. Il suo corpo, dopo il funerale, fu seppellito in una tomba preparata dallo stesso Santucci e collocata dietro l’altare maggiore, ancora visibile.

 

L’epitaffio in latino fu composto dall’abate Celestino Telera, tradotto dall’arcivescovo, Pasquale Gagliardi, così come segue: “D. Pietro Santucci di Siponto, primo Abbate di questo sacro cenobio avendo illustrato il suo edificio con la Città, insigne per sante virtù e per ragioni di guarigioni d’infermità, specialmente nei casi violenti, dorme sotto questa lapide, donde dovrà resuscitare. Morì il 1° febbraio 1641, dell’età sua 79”

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